Quando si decide di adottare le strategie appartenenti all’Inbound Marketing, fa piacere riscontrare un’impennata dei grafici relativi al numero di visitatori che raggiungono il nostro sito su base giornaliera, settimanale o mensile. Significa che i nostri sforzi sono stati premiati.
Si tratta di un risultato che dà soddisfazione, ma non può certo essere considerato un punto d’arrivo. Una volta che il nostro sito è visitato da un alto numero di utenti, a noi cosa ce ne viene in tasca, al di là di una maggiore brand awareness? Non per niente l’Inbound Marketing colloca l’attrazione di nuovi visitatori esattamente all’inizio del percorso o imbuto del marketing. Quello che ci interessa davvero è che, ora che abbiamo attirato la loro attenzione, questi utenti compiano un’azione, il primo vero passo verso il nostro brand, cioè la conversione in lead.
La generazione di lead è forse il punto più delicato dell’intero percorso, perché costituisce il momento di svolta in cui l’utente ci autorizza implicitamente a instaurare un rapporto di fiducia con lui e di portarlo avanti nel tempo, allo scopo di trarne ognuno un certo beneficio.
Di seguito abbiamo raccolto quattro miti abbastanza comuni sulla generazione di lead che sarebbe meglio sfatare fin da subito.
Niente di più falso. Creare delle landing page univoche (una per ogni prodotto proposto, dotata del proprio URL) è un elemento portante delle strategie di inbound marketing.
Secondo un’indagine condotta da HubSpot l’anno scorso, le aziende che disponevano di più di 30 landing page hanno generato 5 volte il numero di nuovi lead generati da chi invece non superava la 5 landing page. Il divario arriva addirittura alle 12 volte per le aziende dotate di oltre 40 pagine.
Evidentemente un numero più alto di landing page nei risultati di ricerca, sui social media e nelle email aumenta le probabilità di raggiungere potenziali lead.
Apparentemente, questo concetto non è sbagliato: meno campi ci sono e più sarà facile per le persone compilare il modulo. In realtà non è così scontato: il numero perfetto di campi non esiste, tutto dipende dall’obiettivo che si vuole raggiungere.
Richiedere pochi dati può effettivamente aiutare ad ottenere folle di nuovi contatti; ma moduli più dettagliati, in cui vengono richieste informazioni più precise, permettono di ottenere solo dei lead qualificati, cioè quelli che ci interessano davvero.
Per Call-To-Action dinamiche si intendono quelle CTA che utilizzano i contenuti smart, capaci di visualizzare messaggi differenti in base all’identità dell’utente.
Non è molto consigliabile mostrare una Call-To-Action relativa a un prodotto appartenente alla fascia alta dell’imbuto del marketing, come per esempio un ebook informativo, a un utente già presente nel nostro database in qualità di lead. Significherebbe sprecare una buona opportunità.
Sempre HubSpot ci fornisce un dato utile a fare luce sull’argomento: analizzando un campione composto da oltre 93 mila CTA, che ha raccolto centinaia di milioni di visualizzazioni nell’arco di 12 mesi, si è notato che le CTA dinamiche vantavano un tasso di conversione del 42% più elevato rispetto a quello delle Call-To-Action classiche.
Che sia complicato non c’è dubbio, bisogna tenere conto di molti fattori, variare dei dettagli e ripetere svariate volte i test, ma ciò non significa che un lavoro ben fatto non possa portare a dei risultati concreti.
È stato dimostrato che testare le CTA presenti su di un blog può più che raddoppiare il CTR (Click-Through Rate).
Dall’indagine condotta da HubSpot nel 2013 emerge che i marketer che hanno messo in pratica prove di A/B test erano - molto più di altri - in grado di aumentare il loro ROI.